DOCUMENTI

Lettera CET

8 Maggio 2020

LETTERA DEI VESCOVI DELLE CHIESE DELLA TOSCANA

ALLE LORO COMUNITÀ IN OCCASIONE DELLA RIPRESA

DELLE CELEBRAZIONI CON IL POPOLO

Cari fratelli e sorelle, 

è una grande gioia, per le nostre Chiese, poter tornare a vivere con il popolo le celebrazioni liturgiche, poter riprendere la condivisione, in forma comunitaria, della Mensa Eucaristica. 

Come Vescovi toscani, rinnoviamo il nostro compiacimento per l’intesa raggiunta tra Stato e Chiesa nel Protocollo firmato giovedì 7 maggio, nello spirito di reciproca collaborazione per il bene del Paese espresso dalle norme concordatarie. 

Abbiamo accettate di buon grado, per senso di responsabilità e animati dalla carità verso tutti, le restrizioni dolorose di questi mesi e che ancora in parte viviamo. Ora siamo lieti che si possa aprire una nuova stagione piena di speranza. Mentre invitiamo le nostre comunità e ciascuno ad agire con responsabilità, adottando tutti gli accorgimenti necessari per mettere in atto, nelle diverse situazioni concrete, le misure indicate nel Protocollo, vogliamo definire anche l’orizzonte pastorale entro cui si colloca questa nuova fase, che vede, nell’ottica di una prudente ripresa della vita sociale, anche la possibilità di una più ampia partecipazione dei fedeli alla vita sacramentale, sebbene a precise necessarie condizioni. Ci ispira la certezza che l’attenzione a mettere in atto quanto è necessario per la salvaguardia della salute di tutti può andare di pari passo con una vita liturgica che permetta ai credenti di poter alimentare alle sorgenti della loro fede il loro contributo alla vita civile. 

Invitiamo innanzitutto le comunità a mostrare – anche attraverso lo scrupoloso rispetto delle misure di sicurezza – quanto sia bello e importante poter tornare a celebrare insieme. Sarà un momento di letizia, e allo stesso tempo di vicinanza per chi ha sofferto, e soffre, per tutte le conseguenze che questa pandemia ha provocato e continua a provocare a livello sanitario, sociale, economico. Mentre riprendiamo con rinnovato slancio le celebrazioni dell’Eucaristia con il popolo, vogliamo dire che in esse continueranno a essere presenti, come lo sono stati finora, i malati; i defunti e le loro famiglie nel dolore; le persone che hanno vissuto ansia, solitudine, che si trovano in situazione di disagio o povertà; tutti coloro che si stanno spendendo per il bene comune, con particolare attenzione a medici, infermieri e altro personale sanitario, cui va una ribadita gratitudine per l’abnegazione e l’impegno professionale, nonché chi esercita responsabilità nella vita politica, amministrativa ed economica, perché, guidati dalla ricerca del bene comune, diano forma a una ripresa che non lasci indietro nessuno, famiglie, lavoratori, poveri.

Il Protocollo ci chiede, tra l’altro, che l’accesso agli spazi della celebrazione sia regolato da volontari e collaboratori: è un’opportunità che possiamo cogliere perché la presenza di queste persone serva non solo a garantire il rispetto delle misure di sicurezza, ma anche a mostrare lo spirito di gioiosa accoglienza con cui la comunità vive questo momento, sottolineando come tutti gli accorgimenti che sarà necessario tenere presenti durante la celebrazione sono nell’interesse e per il bene di tutti.

Ribadiamo l’importanza delle nostre chiese come luoghi deputati alla celebrazione liturgica, nelle quali già dal 18 maggio potremo celebrare la liturgia feriale. Per le liturgie domenicali, potrà essere valutata, se necessario, la possibilità di utilizzare altri ambienti parrocchiali più vasti, oppure di individuare, in accordo con le autorità civili, spazi, anche all’aperto, in cui poter svolgere le celebrazioni in forma dignitosa.

Nell’invitare calorosamente tutti i fedeli a tornare a partecipare alla liturgia, ricordiamo anche che, come sempre, quanti per motivi di età o di salute sono dispensati dal precetto festivo potranno continuare a seguire le celebrazioni attraverso i mezzi di comunicazione, a cominciare dai normali canali televisivi. 

Le nostre Chiese hanno fatto sentire, in questi mesi, la loro vicinanza attraverso un’intensa attività caritativa, che si è moltiplicata di fronte alle tante nuove situazioni di povertà e ha coinvolto numerosi volontari. Ma anche la vita spirituale e l’attività pastorale sono proseguite, attraverso nuovi strumenti e modalità. Molte chiese sono sempre rimaste aperte per la preghiera personale, così come i nostri sacerdoti non hanno mai interrotto la celebrazione del culto a nome della Chiesa. Anche quando hanno celebrato da soli o con pochissime persone, lo hanno fatto a nome di tutti, continuando a offrire per tutto il popolo il sacrificio di lode nel memoriale della passione e risurrezione del Signore.

Questo tempo difficile ci ha fatto riscoprire anche cose importanti, sulle quali sarà necessario ritornare con una riflessione più attenta. C’è stata la scoperta di una ministerialità diffusa, la valorizzazione della famiglia come Chiesa domestica, in cui la vita di preghiera e l’ascolto della Parola di Dio hanno conosciuto una bella fioritura, la ricchezza spirituale della preghiera e della meditazione di ciascuno, in specie degli anziani. La Chiesa, nel suo insieme, non ha mai smesso in questi giorni di annunciare la buona notizia di Cristo Crocifisso e Risorto, facendo arrivare in tanti modi la sua voce. Tutto questo non deve andare perduto, e dovrà aiutarci a ripensare per i prossimi mesi la vita ecclesiale. È fondamentale vedere in questa nuova fase della vita comunitaria, pur nel permanere dell’emergenza sanitaria, un’occasione di vero rinnovamento di tutta la vita cristiana. Nella continuità di un cammino che mai si è interrotto – lo vogliamo sottolineare – intendiamo cogliere in questo momento l’invito del Signore a compiere un passo ulteriore nella fedeltà al Vangelo, trovando modi nuovi di vivere come comunità, segnati da un desiderio di conversione autentica, da uno slancio di ritorno al Signore, con una fede arricchita anche dal sacrificio. 

Sappiamo che il cammino verso una piena ripresa della vita delle nostre comunità dovrà essere graduale e progressivo: dovremo essere pronti, nei prossimi mesi, a individuare, in un proficuo dialogo con le autorità civili, le forme più idonee in cui poter riprendere anche tutte quelle attività educative e formative, rivolte in modo particolare a bambini, ragazzi e giovani, che costituiscono un prezioso servizio per tutta la società. È un’attesa viva tra noi, ma che potrà prendere forma solo in considerazione di come si svilupperà la diffusione della pandemia. L’attesa non deve tradursi in scelte affrettate, ma in paziente preparazione. 

Dobbiamo essere consapevoli che per un tempo, che sarà ancora probabilmente lungo, dovremo adeguare la nostra vita alle limitazioni e alle modalità che questa emergenza ci impone, pur auspicando che tutti i momenti che caratterizzano la nostra esperienza di fede possano gradualmente aprirsi a una piena partecipazione. In questo momento quello che più ci preme è ribadire il nostro essere profondamente lieti che le nostre comunità possano tornare a celebrare insieme l’Eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana. Un segno di questa gioia sarà la celebrazione che le Chiese di Toscana faranno della Messa Crismale il 30 maggio, vigilia della Pentecoste, la Messa in cui, con la benedizione degli Oli, vengono offerti ai credenti i segni dell’amore di Dio che fa nuova la nostra vita. 

Un ultimo invito. L’“Alto Comitato per la fratellanza umana”, composto da capi di diverse religioni, ha proposto ai credenti di tutte le religioni di vivere il prossimo 14 maggio una giornata di preghiera, digiuno e opere di carità, una comune condivisione degli spiriti per implorare Dio che aiuti l’umanità a superare questa pandemia. Il Papa ci chiede di aderire a questa giornata e noi vi esortiamo a farlo, con la fiducia che i credenti ripongono nella preghiera. 

Vi salutiamo, in questo tempo di Pasqua, con l’antico annuncio: “Cristo è risorto. Cristo è davvero risorto!”. Lo Spirito del Risorto, che è gioia, pace e novità di vita, sia con tutti voi. 


Firenze, 8 maggio 2020

I Vescovi delle Diocesi della Toscana

CATECHESI QUARESIMALI DELL' ARCIVESCOVO DI PISA

S. E. Mons.  Giovanni Paolo Benotto

Anno Domini 2020

I Catechesi Quaresimale 2020 Il giorno del Signore, segno della Pasqua,  annuncio di Gesù Risorto e giorno della Parola 

Stiamo vivendo un momento di sofferenza e di sconcerto. Non possiamo riunirci né nelle nostre chiese né nelle nostre case a causa del virus che ci ha ridimensionati in maniera tragica nella possibilità di muoverci e di gestirci in piena libertà.  Nonostante tutto questo non vogliamo assolutamente smarrire la consapevolezza di quella comunione fraterna che ha, per noi cristiani, il suo punto di riferimento e la sua sorgente nell’Eucaristia che l’emergenza del coronavirus ha penalizzato in maniera pesantissima.  Pertanto ho deciso di proporre in questi mercoledì di quaresima che ci separano dalla Pasqua una catechesi-meditazione che ci aiuti a vivere con maggiore intensità il mistero dell’amore di Dio per noi che si manifesta nel mistero del suo Corpo e del suo sangue, e insieme di dare senso a questo “digiuno eucaristico” che però potrebbe permetterci una più profonda consapevolezza di ciò che è Cristo con noi nel dono della sua Parola e del suo Corpo per la vita del mondo. In ciascuno di questi incontri del mercoledì – sia pure a distanza –faremo “sosta” per vivere con maggiore intensità una rinnovata esperienza di Chiesa, volendo arrivare alla Pasqua di Risurrezione più consapevoli del grande mistero dell’Eucaristia che in questo modo potremo approfondire attraverso le catechesi che cercherò di offrirvi; un mistero che siamo chiamati a meditare e ad adorare nella preghiera personale, e a testimoniare nell’esercizio della carità fraterna, perché ciascuno di noi possa vivere sempre più una vita davvero eucaristica.  Una vita eucaristica da vivere personalmente e comunitariamente nella esperienza concreta delle nostre parrocchie, soprattutto quando finalmente, nel giorno del Signore – la domenica -, potremo di nuovo celebrare insieme il memoriale della sua Pasqua, nell’ascolto della sua parola e spezzando Lui, insieme con noi, il pane dell’Eucaristia. Per la riflessione di quest’oggi, desidero partire da una celebre espressione: “Senza la domenica non possiamo vivere”. Una espressione che ci riporta al martirio dei 49 cristiani di Abitene – una città della attuale Tunisia – che nell’anno 304 preferirono affrontare la morte piuttosto che rinunciare a celebrare il giorno del Signore. Una espressione che risuona per noi come una sfida; infatti, è proprio vero che noi cristiani, oggi, senza la domenica non possiamo vivere? Credo che sia utile ripercorrere la vicenda dei cristiani di Abitene attraverso la testimonianza degli Atti del loro martirio che ci sono stati tramandati. “Spero, disse il proconsole Anulino, che deciderete di rispettare gli ordini imperiali, in modo che possiate salvare la vostra vita”. In risposta, i confessori del Signore, invitti martiri di Cristo, dissero all’unanimità: “Siamo cristiani, non possiamo fare a meno di custodire la santa legge del Signore fino a versare il sangue per essa”. Ferito da queste parole, il tiranno diceva a Felice: “Non ti chiedo se sei cristiano o no, ma se hai celebrato riunioni o tieni presso di te le Scritture”. “Stolta e ridicola, la domanda del giudice! “Se sei cristiano – disse – non farlo sapere. Rispondi piuttosto se hai partecipato alle riunioni”. Come se il cristiano potesse esistere senza celebrare i misteri del Signore o i misteri del Signore si potessero celebrare senza la presenza del 

 

cristiano! Non sai dunque, satana, che il cristiano vive nella celebrazione dei misteri e la celebrazione dei misteri del Signore si deve compiere alla presenza del cristiano, in modo che non possano sussistere separati l’uno dall’altro? “Quando senti il nome di cristiano, sappi che si riunisce con i fratelli davanti al Signore e, quando senti parlare di riunione, riconosci in essa il nome di cristiano. “Abbiamo celebrato con tutta solennità le nostre riunioni – disse il martire Felice – e ci siamo riuniti sempre per leggere le Scritture del Signore e per celebrare i suoi misteri”. (cfr. Atti dei Martiri ed Paoline pp. 632-633) I martiri di Abitene avevano ben chiaro che non può esistere vita autenticamente cristiana se il discepolo di Gesù non partecipa all’Eucaristia nel giorno del Signore. E questo partecipare alla celebrazione dei santi misteri del Signore è “legge” di vita, senza la quale non ci può essere vera vita di fede.  A questo proposito è illuminante il dialogo che si svolge tra il Proconsole romano e il martire Emerito: “Rivolto poi ad Emerito, condotto innanzi al tribunale, il proconsole domandò: “Nella tua casa sono state tenute riunioni contro gli editti imperiali?”. Inondato dallo Spirito Santo, Emerito rispose: “Nella mia casa abbiamo celebrato i misteri del Signore nel giorno domenicale”. “Perché – domandò il proconsole – permettevi loro di entrare?”. Rispose Emerito: “Perché sono miei fratelli e non potevo impedirlo”. “Ma avresti dovuto!”, ribatté il proconsole. “Non potevo – insistette Emerito – perché non possiamo vivere senza celebrare i misteri del Signore”. Immediatamente il proconsole lo fece distendere sul cavalletto e ordinò di torturarlo”. (Atti dei Martiri, Ed. Paoline p.631). “Non possiamo vivere senza celebrare i misteri del Signore”, cioè senza celebrare l’Eucaristia nel giorno del Signore, con la comunità dei fratelli! Non si tratta dunque soltanto di obblighi da assolvere, di precetti da osservare, ma di una vera e propria questione di “vita”; cioè, non si può esistere come cristiani senza l’Eucaristia domenicale. Ma perché tutto questo? E perché l’Eucaristia, proprio di domenica? E perché nella propria comunità? Nella lettera apostolica “Dies Domini” del 1998, Papa Giovanni Paolo II scriveva che soprattutto di fronte ad una progressiva perdita di senso e di significato della domenica cristiana, era necessario e urgente “riscoprirne con nuovo vigore il senso: il suo “mistero”, il valore della sua celebrazione, il suo significato per l’esistenza umana e cristiana” (3).  Non sarebbe possibile comprendere il senso e il valore della domenica se non facessimo riferimento a Gesù e alla sua Pasqua di morte e di risurrezione. La domenica infatti ci riporta “all’alba del primo giorno della settimana”, quando “dopo il sabato, Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba. Ed ecco, vi fu un grande terremoto. Un angelo del Signore, infatti, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa (…) L’angelo disse alle donne: “Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: “È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve lo ho detto” (Mt 28,1-7). Si tratta di una esperienza sconvolgente. Colui che tutti avevano visto spirare sulla croce, trafitto dalla lancia del soldato e che era stato posto nel sepolcro nuovo scavato nella roccia, non è più là, nel sepolcro. Nel sepolcro sono rimaste soltanto le bende con cui era stato avvolto il corpo di Gesù e il sudario. Ma il corpo di Gesù non c’era più.  

 

Il vangelo di Marco ci offre quasi una carrellata di quanto accadde in quel primo giorno della settimana: “Risorto al mattino, il primo giorno dopo il sabato, Gesù apparve prima a Maria di Magdala, dalla quale aveva scacciato sette demoni. Questa andò ad annunciarlo a quanti erano stati con lui ed erano in lutto e in pianto. Ma essi, udito che era vivo e che era stato visto da lei, non credettero. Dopo questo, apparve sotto altro aspetto a due di loro, mentre erano in cammino verso la campagna. Anch’essi ritornarono ad annunciarlo agli altri; ma non cedettero neppure a loro. Alla fine apparve anche agli Undici, mentre erano a tavola e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risorto” (Mc 16,9-14). Anche Giovanni sottolinea l’importanza di quel primo giorno della settimana. Dopo l’esperienza della tomba vuota fatta da Pietro e dallo stesso Giovanni e dopo l’apparizione di Gesù a Maria di Magdala “La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Detto questo mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono nel vedere il Signore” (Gv 20,19-20). Davvero si può ben dire che quello fu il “giorno di Cristo Risorto”, “il giorno della risurrezione”, non solo perché di nuovo Cristo, il Crocifisso, si manifesta come colui che vive, ma perché rivivono in qualche modo gli stessi discepoli riscattati dalla paura e dalla delusione in cui erano precipitati nel momento in cui avevano temuto che sulla croce si fosse estinta ogni loro speranza. È significativo che Giovanni ci riporti l’episodio della incredulità di Tommaso nella apparizione di Gesù “otto giorni dopo, (mentre) i discepoli erano di nuovo in casa” (Gv 20,26); possiamo ben dire che da subito la comunità dei discepoli di Gesù si ritrova insieme ogni otto giorni per ricordare il Risorto, per viverne la presenza di salvezza e per ripetere quanto egli aveva fatto nella sera dell’ultima Cena, lasciando il gesto dell’Eucaristia “in memoria” di sé, con il compito  affidato agli apostoli di ripetere questo stesso gesto come “memoriale” della sua Pasqua. È il libro degli Atti degli Apostoli che ci testimonia in maniera chiarissima questo ritrovarsi insieme dei primi cristiani il primo giorno della settimana.  Significativo è quanto accade a Troade con l’apostolo Paolo.  Luca racconta: “Il primo giorno della settimana ci eravamo riuniti a spezzare il pane, e Paolo, che doveva partire il giorno dopo, conversava con loro e prolungò il discorso fino a mezzanotte”. Insieme ad altre persone “un ragazzo di nome Eutico, seduto alla finestra, mentre Paolo continuava a conversare senza sosta, fu preso da un sonno profondo; sopraffatto dal sonno, cadde giù dal terzo piano e venne raccolto morto. Paolo allora scese, si gettò su di lui, lo abbracciò e disse: Non vi turbate; è vivo! Poi risalì, spezzò il pane, mangiò e, dopo aver parlato ancora molto fino all’alba, partì” (At 20, 7ss).  Anche il racconto autobiografico che Giovanni ci tramanda sulla prima delle sue visioni dell’Apocalisse dice che essa avvenne mentre egli si trovava “nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù”, aggiungendo: “fui preso dallo Spirito, nel giorno del Signore” e vide Colui che è “il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi” (1,9.17-18). Possiamo ben dire che da quel mattino del “primo giorno dopo il sabato” in cui Gesù si manifesta come il Risorto, il Vivente che vive per sempre, ogni settimana, Gesù Risorto, sempre di nuovo, convoca i suoi discepoli intorno alla sua mensa.  La domenica è anche per noi il giorno in cui “Cristo ha vinto la morte e ci ha resi partecipi della sua vita immortale”. Non è stata dunque la Chiesa a scegliere questo giorno, ma Gesù Risorto. 

 

E perciò la Chiesa accoglie la domenica come dono che viene dal Signore, come “giorno del Signore” in cui celebrare il gesto d’amore con cui il Signore si è consegnato a noi nei segni del pane e del vino dell’Eucaristia.  Celebrare la domenica è per la Chiesa e deve esserlo anche per ogni cristiano, motivo di fedeltà, segno della continuità della nostra fede in Cristo Gesù morto e risorto. È per questo che per Pasqua, ma anche in ogni domenica, che è la Pasqua della settimana, la Chiesa canta con il salmista: “Questo è il giorno che ha fatto il Signore, rallegriamoci ed esultiamo in esso” (Ps 118,24). In fondo, ogni domenica, il cristiano è ricondotto alle radici della propria fede, a quell’avvenimento storico che è sì, lontano nel tempo, ma che ancora adesso si rende presente per noi nei segni della celebrazione eucaristica. Celebrare l’Eucaristia significa dunque celebrare la Pasqua di Gesù. Celebrarla di domenica significa fare Pasqua in maniera tutta speciale; vuol dire entrare con tutto il nostro essere nel mistero della salvezza, respirare la salvezza che ci dona Gesù, permettendole di diventare la “nostra” salvezza. Ed è una celebrazione che non può e non deve assolutamente diventare una specie di “utenza” individuale. Qualche volta può accadere che la nostra partecipazione alla Messa domenicale sia soltanto una specie di utilizzazione di un “servizio” di cui il cristiano deve poter disporre, quasi che ciò che conta sia in fondo “aver assolto il precetto”. È vero che il comandamento di Dio ci dice di “santificare le feste” e che il precetto della Chiesa chiede al cristiano di “partecipare alla Messa la domenica e nelle feste comandate”, per cui, alla fine parrebbe che ciò che conta è “prendere la Messa”, in qualche modo, purché questo avvenga. Se per un cristiano tutto ciò è necessario, non possiamo però dire che sia sufficiente; bisogna infatti vigilare perché la mentalità individualistica che grava sul nostro tempo non svuoti di senso la nostra partecipazione alla santa Liturgia. La domenica, infatti è anche il giorno della Chiesa, il giorno della comunità. E non di una comunità ideale o ipotetica, ma della comunità locale della quale facciamo parte e nella quale vive ed opera il mistero della Chiesa particolare e della stessa Chiesa universale. In altre parole, non si può sperimentare la gioia della novità della Pasqua se non dentro una vera comunità di fratelli; e cioè se il nostro ritrovarsi insieme non ci porta al desiderio e all’impegno di conoscerci personalmente, di sostenerci vicendevolmente nel cammino della vita cristiana, giungendo a compiere in tutta verità i segni della liturgia che non hanno altro scopo se non quello di far sì che andiamo sempre più sperimentando la gioia della comunione fraterna. La parrocchia è il luogo dove tutto questo può e deve compiersi, dove l’anonimato può essere annullato e superato; dove l’essere chiamati per nome ci aiuta a superare la barriera della solitudine di cui tanti oggi soffrono nella vita sociale. Infatti se è vero che Dio ci conosce per nome e ci ha chiamati uno per uno ad essere suoi figli, questo è perché diventi lo stile della famiglia dei figli di Dio, dove gli uni si riconoscono fratelli degli altri e come i martiri di Abitene, ciascuno è consapevole della necessità di spalancare la porta della casa comune ad ogni altro fratello, chiamandolo per nome, in una vera accoglienza che conduca tutti, come un cuore solo ed un’anima sola, a celebrare insieme i misteri del Signore.  In questo nostro celebrare, la domenica si manifesta, prima di tutto, come il giorno che proclama la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte. È infatti il giorno in cui la parola nuova della salvezza risuona come annuncio di vita per il mondo intero. “Cristo è risorto!”, è l’annuncio che risuona per ogni uomo e per tutta l’umanità. Davvero la domenica dice a tutti che “il Padre ci 

 

ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati” (Col 1,13-14).  Davvero il Giorno del Signore, la domenica, proclama e realizza nell’Eucaristia che celebriamo, quanto scriveva l’apostolo Paolo agli Efesini: “In Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani siete diventati vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, (…) per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2,13-18). Un annuncio che si compie concretamente attraverso la proclamazione della Parola di Dio che risuona nella celebrazione liturgica. Un annuncio a cui, forse, abbiamo fatto l’abitudine e che quindi è diventato un momento scontato della nostra partecipazione alla Messa. È normale che qualcuno si alzi e vada all’ambone e proclami dei testi tratti dall’ Antico e dal Nuovo Testamento. È normale che il sacerdote tenga la sua omelia; è normale alzarsi e sedersi a seconda di ciò che si proclama. Ma si ha la vera consapevolezza di ciò che sta succedendo? Quando il lettore, al termine della lettura esclama: “Parola di Dio!” o il sacerdote il diacono che ha proclamato il Vangelo dice: “Parola del Signore!”, e noi rispondiamo: “Rendiamo grazie a Dio” o “Lode a te o Cristo!”, siamo davvero consapevoli di ciò che si sta dicendo? Fa sempre un certo effetto rileggere nei documenti del Concilio questa affermazione: “Cristo è presente nella sua parola, giacché è Lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura” (SC 7).  È dunque Cristo che parla, quando si proclama la parola della Scrittura. Un Cristo che spesso rischia però di rimanere muto, sia perché quella parola scivola via dal cuore senza rimanere in esso, sia perché per troppi cristiani la Bibbia è ancora un libro “sigillato” e incomprensibile.   A questo proposito, viene in mente la parabola del seminatore: a quale tipo di terreno appartiene il nostro cuore e la nostra vita? È per caso come una strada dove tutti passano e calpestano il seme sparso dalla parola di Dio? È terreno sassoso dove il chicco non riesce a mettere radici profonde e appena spuntata la pianticella subito inaridisce perché nel momento della tentazione immediatamente si cede alla prova? O è terreno infestato dalle spine e cioè dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita che impediscono al seme germogliato e cresciuto di giungere a maturazione? Gesù ci chiede di essere “terra buona” e cioè capaci di “ascoltare con cuore buono e perfetto” e di “custodire” questa parola con perseveranza per poter portare frutto. (Lc 8,11-15). Si tratta di atteggiamenti interiori indispensabili che dobbiamo curare con attenzione perché la parola di Dio che ogni domenica ci viene annunciata riesca ad esprimere tutta la sua ricchezza e la sua forza. Si realizzerà allora ciò che dice il profeta Isaia: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (55,10-11). 

 

Una Parola che finché rimane solo scritta sulle pagine dei nostri libri liturgici è soltanto testimonianza di ciò che il Signore ha proclamato nei tempi antichi; ma che quando viene proclamata, sprigiona ancora tutta la sua fecondità e la sua potenza di salvezza, attuando nel nostro “oggi” l’”oggi eterno” di Dio; e che finalmente, quando viene vissuta, diventa visibilità stessa del Signore, quasi sua perenne incarnazione nel tempo e nella storia e nella vita di ogni discepolo del Vangelo. Questo deve poter avvenire anche per noi, nel giorno del Signore; ogni domenica, in ciascuna delle nostre comunità parrocchiali; nella intera nostra Chiesa pisana. E le nostre liturgie domenicali saranno davvero in grado di “parlare” a tutti e di proclamare la presenza di Gesù Risorto, il Signore, al quale, insieme a noi, tanti altri fratelli saranno felici di offrire la propria vita e la pienezza del loro amore. 


II Catechesi Quaresimale 2020  L’Eucaristia domenicale, cuore della vita parrocchiale:  celebrazione e vita personale e comunitaria 

Per moltissime persone, il modo più comune di entrare in contatto con la Chiesa, sono le celebrazioni liturgiche. Battesimi, cresime, prime comunioni, matrimoni e funerali sono avvenimenti in cui tante persone che non frequentano la Chiesa o che da lungo tempo vivono al suo margine, di nuovo, si incontrano con la comunità cristiana. Celebrazioni che riempiono di gente le nostre chiese, ma che rimangono fatti episodici, spesso senza conseguenze, per un autentico cambiamento di vita. Ed è ovvio che quando la partecipazione alla vita ecclesiale si realizza solo in certe occasioni della vita o soltanto in alcune feste più importanti dell’anno, si perde il senso vero di un cammino da percorrere non da soli ma insieme con i fratelli nella fede e soprattutto si giunge a teorizzare ciò che molti dicono e cioè che la preghiera più intensa è possibile magari quando ci si ferma a pregare in una chiesa in cui non c’è nessuno, piuttosto che in una assemblea liturgica affollata di gente. E così ci si giustifica per la propria assenza alla Messa domenicale, forse anche convinti di fare bene. Come non manca chi, in nome della autenticità del proprio rapporto con Dio, afferma che per poter andare a Messa in maniera giusta, è bene andarci quando “ci si sente” di andarci, per cui “se non ci si sente”, con il rischio forse di parteciparvi distratti e annoiati, è meglio fare altro. E poi, il modo di partecipare alla Messa domenicale non è certo indifferente. Spesso, in certe celebrazioni, viene alla mente l’immagine evocata da un poeta toscano dell’ottocento che descrivendo i soldati austriaci che partecipavano alla Messa in S. Ambrogio di Milano, dice che sembravano messi “nella vigna di Dio a far da pali”. “Pali”, cioè persone tutto sommato estranee, quasi fossero lì per caso, tanto rimangono mute e impassibili, almeno esternamente, nello svolgimento dei riti sacri, veri e propri “utenti” di un servizio ecclesiale a cui di fatto, fanno fatica a prendere parte. Anche nel linguaggio ecclesiale che si è andato affermando dopo il Concilio Vaticano II l’uso di certe parole dice la sostanza che è in gioco. Prima si parlava normalmente di “assistenza” alla Messa; oggi si afferma chiaramente che l’andare a Messa non può ridursi ad assistere a qualcosa che si svolge quasi fosse una realtà esterna alla persona, ma si tratta di una doverosa “partecipazione”, dove il prendere parte sta a significare che il fedele è protagonista indispensabile della stessa celebrazione. Ed è protagonista in prima persona, con la sua specifica individualità, ma anche come membro di una comunità che coralmente partecipa all’azione sacra. In un tempo in cui sempre più determinante si fa il peso dell’individualismo, la partecipazione alla vita liturgica ecclesiale è dunque affermazione dell’insostituibile impegno della persona nella propria individualità, ma anche del suo necessario coinvolgimento nella coralità di un rapporto di comunione tra fratelli. Ed è proprio su questo aspetto specifico che desidero soffermarmi con voi in questa seconda catechesi del nostro percorso quaresimale che deve aiutarci ad approfondire la nostra conoscenza del mistero dell’Eucaristia, per riuscire a cogliere qualcosa di più della sua ricchezza insondabile e soprattutto per far crescere la nostra vita eucaristica personale e comunitaria. 

 

La Messa domenicale è il cuore della vita della comunità parrocchiale. La Chiesa, comunità dei credenti in Cristo Signore, vive concretamente nelle singole comunità che, in comunione con il proprio vescovo e con il papa sono, in Cristo, una cosa sola con tutti gli altri fratelli di fede. Questo ci dice che la Chiesa non è mai una astrazione ideale, un qualcosa al di fuori del tempo e della storia o della concretezza della vita di un determinato ambiente. La Chiesa infatti è radicata profondamente nel presente e si incarna nelle situazioni di vita che ci coinvolgono e ci vedono quotidianamente protagonisti interconnessi sia nel bene che nel male.  Come dice il Concilio Vaticano II la Chiesa vive e sussiste nelle Chiese particolari, cioè intorno ai vescovi successori degli apostoli; così come vive nelle comunità locali intorno ai sacerdoti che, rappresentando il proprio vescovo, manifestano la presenza del Cristo buon Pastore in mezzo al suo popolo. A questo proposito il Concilio ha affermato che: “poiché nella sua Chiesa il vescovo non può presiedere personalmente sempre e dovunque l’intero suo gregge, deve costituire perciò delle assemblee di fedeli, tra cui hanno un posto preminente le parrocchie organizzate localmente sotto la guida di un pastore che fa le veci del vescovo: esse infatti rappresentano in certo modo la Chiesa visibile stabilita su tutta la terra. Per questo motivo la vita liturgica della parrocchia e il suo legame con il vescovo devono essere coltivati nell’animo e nell’azione dei fedeli e del clero; e bisogna fare in modo che il senso della comunità parrocchiale fiorisca soprattutto nella celebrazione comunitaria della Messa domenicale” (SC42). Parrocchia e celebrazione della Messa domenicale sono quindi strettamente e indissolubilmente legate tra loro: nella parrocchia si ha l’immagine concreta della Chiesa; l’Eucaristia che in essa si celebra, in modo particolare la domenica, è il centro e il cardine della sua vita e della sua attività. Il Concilio ha ricordato ancora che “non è possibile che si formi una comunità cristiana se non avendo come radice e come cardine la celebrazione della Sacra Eucaristia, dalla quale quindi deve prendere le mosse qualsiasi educazione tendente a formare lo spirito di comunione. E la celebrazione eucaristica a sua volta, per essere piena e sincera deve spingere sia alle diverse opere di carità e al reciproco aiuto, sia all’azione missionaria e alle varie forme di testimonianza cristiana” (PO6). Credo dunque opportuno rivolgere la nostra attenzione alle nostre celebrazioni eucaristiche domenicali cercando di coniugarle sia con il necessario coinvolgimento personale, sia con la manifestazione della propria natura di celebrazioni comunitarie. Per questo occorre tenere presenti alcuni principi di carattere generale: la liturgia e in particolare la celebrazione dell’Eucaristia è un “rito” e come tale risponde a regole precise che la rendono sempre uguale a se stessa. Ciò non vuol dire che non debba essere sollecitata, e con molta attenzione, la libertà e la responsabilità dei partecipanti, per non correre il rischio di atteggiamenti di tipo magico e perché non si sfoci mai nel ritualismo che pur preciso e puntuale, alla fine diventa vuoto e distaccato dalla vita concreta delle persone. Svolgendosi con le forme della ritualità e quindi attraverso gesti che implicano visibilità e che vogliono coinvolgere la persona nella sua sensibilità, la liturgia non deve mai indulgere a forme di vuota esteriorità. La liturgia infatti dà forma esterna ad un mistero di salvezza che è il contenuto di ogni celebrazione e che proprio attraverso essa si dona ai partecipanti. 

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Ed ancora: se la liturgia coinvolge il senso religioso della persona ed esige un profondo atteggiamento di devozione personale, essa però non è mai un fatto privato ed individualistico; bensì è un atto comunitario che coinvolge tutti come comunità credente e corpo sociale di Cristo Ed infine: se la liturgia risponde a regole fisse e ben precisate, questo è proprio per affermare il fatto che essa non è mai una specie di “proprietà privata” di qualcuno, ma è azione della Chiesa che, celebrando il mistero di Cristo, ne estende la salvezza a tutti gli uomini. Già soltanto con queste poche annotazioni possiamo affermare alcune cose fondamentali circa la celebrazione della liturgia in genere e dell’Eucaristia in particolare: l’azione liturgica è sempre, per sua natura, azione comunitaria; è quindi attività di tutta intera la comunità cristiana e cioè del popolo di Dio gerarchicamente ordinato che è chiamato ad esprimersi nell’esercizio dei suoi diversi ministeri che corrispondono alle diverse vocazioni e ai diversi carismi donati dal Signore. Essa si esprime attraverso dei “segni” e dei “gesti rituali” che parlano al cuore oltre che alla mente e coinvolgono la persona in tutte le sue potenzialità e le sue caratteristiche. Nel momento stesso in cui si esprime attraverso il linguaggio dei segni, l’azione liturgica vuole “rivelare” un mistero; cioè ciò che sta oltre quei gesti, quelle parole e quei segni, e cioè il mistero della salvezza che il Signore Gesù vuol offrire ad ogni uomo. Tutto questo ci interpella circa la celebrazione delle nostre eucaristie domenicali: sono celebrazioni che coinvolgono ogni fedele o sono ancora celebrazioni alle quali, in fondo, si assiste soltanto?  C’è vera fedeltà a quelle che sono le norme liturgiche, le quali, se da una parte condannano gli abusi, dall’altra chiedono pure un vero impegno a non fermarci ad una ritualità standardizzata?  Gli esempi in questo senso sono numerosi. Basterebbe domandarci in che modo prepariamo le nostre celebrazioni domenicali. Prima di tutto, c’è in ciascuna delle nostre parrocchie un “gruppo liturgico” che abbia soprattutto il compito di preparare le liturgie festive? Dico “liturgie”, al plurale proprio per affermare che non basta preparare con cura “una” delle Messe domenicali, lasciando che tutte le altre vengano celebrate in modo “liscio” e cioè, senza canti, senza esercizio della ministerialità dei fedeli, senza che i gesti liturgici possibili vengano eseguiti, come ad esempio la processione offertoriale. E i canti? Chi li sceglie? E con quali criteri? Chi li esegue? A questo proposito, il panorama diocesano è estremamente variegato: si celebrano liturgie in cui l’assemblea è totalmente tagliata fuori dalla possibilità di cantare, perché i canti vengono eseguiti da una Corale con tanto di maestro direttore, oppure da un “coretto” giovanile, con qualche chitarra, cantando a volte canti che nessuno conosce e dei quali nessuno ha in mano il testo; (In questo caso, è cambiata la lingua dei canti; è cambiato lo stile musicale – e spesso non in meglio – ma la partecipazione dei fedeli rimane comunque esclusa e impossibilitata ad esprimersi) e si celebrano invece liturgie in cui tutta l’assemblea partecipa con gioiosa coralità semplicemente perché si mettono le persone in condizione di poter cantare con qualche prova di canto prima dell’inizio della celebrazione e soprattutto avendo fornito a tutti i presenti i testi dei canti. E per far cantare tutti non è poi così difficile: basterebbe che i nostri gruppi corali fossero aiutati a comprendere quale è il loro specifico ministero, che non è quello di cantare tutto loro, sia pure in maniera perfetta, ma di far sì, attraverso il proprio canto, di far cantare tutti. Quanto detto per il canto vale anche per ogni altro servizio ministeriale. Basta pensare al ministero di proclamazione della Parola di Dio. Chi è che prepara i Lettori? Come vengono 

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distribuite le letture? Qualche volta, ascoltando, si ha la netta percezione che il lettore stesso non capisca ciò che sta proclamando. E, attenzione: leggere non è uguale a proclamare. Si legge il giornale, ma non la Parola di Dio; questa deve essere proclamata, cioè annunciata nella consapevolezza che non è l’annunciatore a dare valore alla parola di Dio, ma è la Parola di Dio che costituisce in dignità chi la proclama, prestando egli la propria voce al Signore che parla nella sua Chiesa. E poi ancora: il servizio all’altare. Anche in questo caso il panorama diocesano è assai diversificato. Di fronte ad alcune comunità che hanno degli splendidi gruppi di ministranti, ce ne sono altre che non hanno assolutamente nessuno che serva all’altare, anche nelle celebrazioni più solenni. Altre hanno qualche bambino, che potremmo tranquillamente definire “chierichetto improvvisato” in cui, oltre la disponibilità a stare intorno all’altare, non c’è niente altro se non una fonte di confusione e di distrazione per tutta l’assemblea. E poi la necessità che ci sia chi aiuta, ad esempio, i ragazzi nell’imparare a partecipare alla Messa in maniera piena ed attiva. È un ministero, questo, che è sicuramente di pertinenza dei genitori, i quali dovrebbero essere proprio loro i primi catechisti e i primi educatori alla preghiera dei propri figli, ma che spesso è ministero disatteso e al quale la comunità cristiana deve supplire con il servizio dei catechisti e degli animatori parrocchiali. Che dire poi della preparazione del luogo sacro, dell’altare, delle vesti liturgiche e di quanto occorre per la celebrazione: spesso si tratta di servizi umili, che non hanno risonanza, di cui forse nessuno si accorge, ma di cui si vede immediatamente la mancanza, quando le chiese sono addirittura sporche, le tovaglie dell’altare, non proprio immacolate, e magari proprio nel bel mezzo di una celebrazione mancano gli arredi necessari per lo svolgimento della stessa. Da questa rapida carrellata ci si può rendere conto che nella celebrazione liturgica c’è veramente spazio per tutti. Anche se non tutti debbono fare tutto, ciascuno, tuttavia è chiamato a fare la propria parte come membro dell’unico corpo del Signore che è la Chiesa, in sintonia e consonanza perfetta con chi dal Signore ha ricevuto il compito di guidare il suo popolo: il vescovo, i sacerdoti e i diaconi, tutti a titolo diverso, collaboratori del vescovo. È per questo che Papa Giovanni Paolo II, nella sua lettera sul Giorno del Signore – Dies Domini - (31) ricordava ad ogni cristiano che non si può vivere individualisticamente la fede. “Quanti hanno ricevuto la grazia del battesimo, non sono stati salvati solo a titolo individuale, ma come membra del corpo mistico, sono entrati a far parte del popolo di Dio”. E sempre nella lettera Mane nobiscum Domine diceva ai sacerdoti: “nel loro impegno pastorale prestino una attenzione sempre più grande alla Messa domenicale, come celebrazione in cui la comunità parrocchiale si ritrova in maniera corale, vedendo ordinariamente partecipi anche i vari gruppi, movimenti, associazioni in essa presenti” (23).  È dunque la Parrocchia – ordinariamente – il luogo della celebrazione domenicale dell’Eucaristia, intendendo con parrocchia non soltanto i locali parrocchiali o la chiesa parrocchiale, ma la comunità cristiana della Parrocchia, che in questo modo può davvero crescere nella consapevolezza della propria insostituibile identità. Tutto questo, però, non sarebbe sufficiente se il mistero che celebriamo non entra profondamente nella nostra vita di tutti i giorni. E proprio dalla consapevolezza del mistero si deve partire per una sempre più matura appropriazione del meraviglioso dono dell’Eucaristia. Per questo vale la pena di farci ancora una domanda: quale è per ciascuno di noi il significato dell’Eucaristia che celebriamo? 

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Il Concilio afferma: “Il nostro Salvatore, nell’Ultima Cena, la notte in cui fu tradito, istituì il sacrificio del suo Corpo e del suo Sangue, onde perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il sacrificio della croce e per affidare così alla sua diletta sposa, la Chiesa, il memoriale della sua morte e della sua risurrezione: sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale nel quale si riceve Cristo, l’anima viene ricolmata di grazia e ci è dato il pegno della gloria futura” (SC47).  La Messa è dunque celebrazione del sacrificio di Cristo, memoriale della sua Pasqua, convito della sua Parola e del suo Corpo, celebrazione della Chiesa attraverso il ministero sacerdotale, che si esprime sia nel sacerdozio comune dei fedeli che nel sacerdozio ministeriale. Se dunque il sacerdozio ministeriale “con la potestà sacra di cui è rivestito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all’oblazione dell’Eucaristia e lo esercitano col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e l’operosa carità” (LG 10). Dunque: presbitero e fedeli insieme, indissolubilmente legati nella celebrazione dell’Eucaristia; ognuno con il proprio compito, con la propria responsabilità, perché ciò che si celebra nella liturgia possa anche essere celebrato nella vita. Dice ancora il Concilio: “La Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano istruiti nella Parola di Dio; si nutrano alla mensa del Corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo l’ostia immacolata, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per mezzo di Cristo Mediatore siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (SC48). Dalla liturgia occorre dunque passare alla vita, come dalla vita tutto deve confluire nella liturgia. Niente infatti deve rimanere estraneo rispetto al mistero della nostra salvezza. È per questo che sempre il Concilio afferma: “Tutte le opere dei laici cristiani, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e persino le molestie della vita se sono sopportate con pazienza, diventano spirituali sacrifici graditi a Dio per Gesù Cristo; e, queste cose, nella celebrazione dell’Eucaristia sono piissimamente offerte al Padre insieme all’oblazione  del Corpo del Signore. Così anche i laici, in quanto adoratori dovunque santamente operanti, consacrano a Dio il mondo stesso” (LG34). 


III Catechesi Quaresimale 2020 Il giorno del Signore:  giorno della comunione con Gesù e con i fratelli.  Il mistero del Pane di vita centro della vita del cristiano 

 “Mistero della fede”. Una espressione che il sacerdote proclama o canta e che risuona solenne al centro delle nostre celebrazioni eucaristiche. Una espressione sulla quale vogliamo soffermarci in questa terza catechesi nel cammino di approfondimento che stiamo percorrendo in questa Quaresima così sofferta e in qualche modo “anomala”. “Mistero della fede”. Non stiamo parlando di qualcosa che non si capisce o che rimane astruso e irraggiungibile: stiamo parlando di ciò che, nascosto da secoli eterni in Dio, si è rivelato a noi nella pienezza dei tempi in Gesù e cioè il “mistero della volontà di Dio, secondo la benevolenza  che in Cristo si era proposto, per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra” (Ef 1,9-10). Il disegno di Dio, da sempre, ha il suo centro nel Figlio suo Gesù Cristo: “Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione (…) tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. (…) È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli” (Col 1,15-20).  Nel tempo dell’attesa, tutto convergeva verso Cristo, tanto che l’Antico Testamento non riesce a rivelare tutta la sua ricchezza se non lo leggiamo in relazione a Cristo; nella pienezza dei tempi “È apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini” (Tit 2,11); dopo che il Signore Gesù “fu assunto in cielo” (At 1,2), egli rimane al centro della vita e della storia della Chiesa e non solo con la sua presenza invisibile e la forza della sua grazia, ma anche attraverso tutta una serie di “segni” che ci parlano di lui, che lo rappresentano, che lo indicano e che in qualche modo lo contengono perché possa costantemente comunicarsi a tutti gli uomini.  Il Concilio Vaticano II ci offre quasi un elenco dei modi con i quali il Signore Gesù è presente in mezzo a noi: “Per realizzare la grande opera della salvezza, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel Sacrificio della Messa sia nella persona del ministro, sia soprattutto nelle specie eucaristiche. È presente con la sua forza di salvezza nei sacramenti, di modo che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura. È presente infine quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io in mezzo a loro” (SC7). Nell’Eucaristia si realizza quella presenza di Cristo che noi chiamiamo “reale”, non perché negli altri segni Gesù sia meno presente, ma perché nelle specie eucaristiche Gesù è presente con il suo corpo e il suo sangue, con la sua santissima umanità e con la pienezza della sua divinità per essere cibo e nutrimento delle nostre anime.  Per questo proclamiamo l’Eucaristia: “mistero della fede” e cioè centro della nostra fede e della nostra vita di cristiani. Infatti, celebrando la Messa, noi celebriamo il sacrificio di Cristo, “annunciamo la sua morte, proclamiamo la sua risurrezione, nell’attesa della sua venuta” e 

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riviviamo in maniera sacramentale ciò che avvenne nell’Ultima Cena, nella notte in cui Gesù fu tradito, quando “prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice dicendo: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me. Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore finché egli venga” (1Cor 11,23-25). Il termine “sacramento” è la parola chiave per comprendere compiutamente il mistero eucaristico. Il sacramento è un segno che non solo rimanda ad una realtà che esso indica e significa, ma che la contiene pure e che è capace di comunicarla.  Pane e vino sono segni privilegiati di ciò che è cibo e bevanda per eccellenza. Il pane serve per essere mangiato così come il vino serve per essere bevuto. Cristo Gesù, nell’Ultima Cena, ha scelto il pane e il vino perché si realizzasse la promessa che egli aveva fatto a Cafarnao, dopo la moltiplicazione dei pani, quando aveva detto a quanti lo stavano seguendo: “Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà” (Gv 6,26-27). Un pane ben superiore rispetto alla manna che pure veniva detta “pane venuto dal cielo”; “infatti il pane di Dio, è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” (v33). Non è solo una cosa, ma si tratta di una persona. “Signore, dacci sempre questo pane!” esclamano gli ascoltatori di Gesù i quali in realtà, non avevano ancora capito ciò che Gesù stava dicendo.  Infatti, il pane di cui parla il Signore si colloca su un piano diverso rispetto a quello che i giudei si attendevano: è Gesù il pane della vita. Un pane di cui è possibile nutrirsi solo nella fede. Si tratta della persona stessa di Gesù che si offre in maniera concreta: “il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (v51). Affermazione, questa, che suscita scandalo negli ascoltatori: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?” (v52) e che viene ribadita da quanto il Signore dice in seguito: “Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. (..) Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. (..) Chi mangia questo pane vivrà in eterno” (6,53-58). A queste parole lo scandalo degli ascoltatori cresce ulteriormente: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” (v60). E commenta l’evangelista: “Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui” (v66). Linguaggio duro e insieme estremamente chiaro: il pane eucaristico è la carne stessa del Signore, cioè Lui stesso nella condizione di Agnello sacrificato e offerto come oblazione perfetta per la remissione dei peccati. Il pane che Gesù ci offre non è soltanto un simbolo o una allegoria: è Lui stesso Crocifisso e Risorto, fattosi cibo di vita eterna, tanto che “colui che mangia di me vivrà per me”.  Ed è proprio per questo che “molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui”; questi però non avevano capito che le parole di Gesù dovevano essere accolte come “spirito e vita” e non come invito ad una specie di cannibalismo: “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono!” (vv63-64).  Si tratta cioè del problema della fede. Senza la fede, l’Eucaristia o diventa assurdità o si svilisce e si appiattisce in un rito evocativo di qualcosa ormai lontano nel tempo e che possiamo soltanto ricordare senza avere l’ardire di renderne presente il contenuto salvifico. 

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Come possiamo vedere anche soltanto da questa breve carrellata sui testi evangelici, è la Parola di Dio che ci rivela il mistero del Pane di vita; una parola della quale non possiamo mai fare a meno nella stessa celebrazione dell’Eucaristia. Non capiremmo più niente e saremmo in balia dell’arbitrio individuale senza il riferimento alla parola della Scrittura letta e interpretata nella e dalla Chiesa.  La Parola di Dio infatti illumina il mistero del Pane, così come il mistero del Pane dà compimento alla Parola stessa. L’una rimanda all’altro e viceversa, senza alcuna interruzione, proprio come avvenne nell’episodio dei discepoli di Emmaus raccontato da Luca.  “Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (24,25-27).  Una spiegazione che aprì il loro cuore ad un nuovo approccio ad una parola che conoscevano da sempre, ma che in qualche modo era rimasta sigillata e incompresa, tanto che saranno proprio loro a testimoniare: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?” (v32). Una spiegazione che certamente li preparò a leggere in pienezza il gesto che di lì a poco Gesù avrebbe fatto a tavola nella locanda in cui si erano fermati: il gesto dello spezzare il pane, gesto che avrebbe permesso loro di riconoscere Gesù. Parola e Pane sono quindi tra loro non separabili: Parola e Pane, ciascuno in modo proprio, costruiscono la comunità. Liturgia della Parola e Liturgia Eucaristica non sono tra loro separabili: il mistero del Pane non si svelerebbe senza l’annuncio della Parola e la Parola si ritroverebbe incompiuta se non si incarnasse nel gesto della frazione del pane eucaristico. Una unità che ci dice che il “mistero della fede” abbraccia anche la parola di salvezza che siamo chiamati ad ascoltare e ad annunciare al mondo. In un piccolo e preziosissimo libro che è l’Imitazione di Cristo si legge: “Sento che in questa miserabile vita mi sono sommamente necessarie due cose, senza le quali mi diventerebbe insopportabile vivere. Sì: ho bisogno di due cose: di cibo e di luce. E, appunto, tu o Signore, hai dato a me, malato e debole, il tuo sacro Corpo per rifocillare la mente e il corpo; e hai messo come fiaccola ai miei passi la tua parola. Senza queste due cose mi sarebbe impossibile vivere bene, poiché tu, Verbo di Dio, sei luce per l’anima mia; e il tuo Sacramento è pane di vita. Queste due cose ricordano le due mense poste di qua e di là nel tesoro della Chiesa. Una è la mensa del sacro altare che ha il pane santo, cioè il prezioso corpo di Cristo; l’altra è la mensa della divina Legge che contiene un sacro insegnamento e suscita una retta fede e conduce direttamente fino al più intimo velo in cui è avvolto il Santo dei Santi” (Lib). IV cap XI,4-5). Due mense che ci vengono abbondantemente imbandite ogni volta che celebriamo l’Eucaristia; due mense il cui cibo è sempre e soltanto l’unico Cristo che ci viene offerto nel segno della parola – potremmo anche dire nel sacramento della parola – e nel segno del pane – il sacramento dell’Eucaristia. Ed è Cristo, Parola e Pane, che ci chiede di conformarci a Lui e al suo mistero d’amore.  Prima di tutto ci chiede di ascoltare e di far sì che la parola ascoltata “rimanga” in noi: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. (..) Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore” (Gv 15,7.10), poi ci chiede di nutrirci del suo Pane: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6,56). In ambedue i casi si 

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stabilisce una reciproca immanenza tra il Signore e la nostra persona. Lui in noi e noi in Lui, nella intimità della condivisione della stessa vita. Lui vive in noi e noi viviamo grazie a Lui nel momento stesso in cui siamo chiamati a indirizzare e a finalizzare a Lui tutta la nostra esistenza. Da quanto detto derivano molte conseguenze pratiche sulle quali siamo chiamati a rivedere la nostra vita. Per questo è necessario non dimenticare mai che il mistero dell’Eucaristia non può essere pienamente vissuto se non diventa il mistero della nostra vita; se cioè quanto è inscritto nel mistero eucaristico non diventa il “progetto” grazie al quale deve edificarsi la nostra vita di cristiani.  A questo proposito, Papa Giovanni Paolo II, affermava questo nella lettera Mane nobiscum Domine quando scriveva: “Per la missione affidata da Dio ad ogni cristiano l’Eucaristia non fornisce solo la forza interiore, ma anche – in certo senso – il progetto. Essa infatti è un modo di essere, che da Gesù passa nel cristiano e, attraverso la sua testimonianza, mira ad irradiarsi nella società e nella cultura. Perché ciò avvenga, è necessario che ogni fedele assimili, nella meditazione personale e comunitaria, i valori che l’Eucaristia esprime, gli atteggiamenti che essa ispira, i propositi di vita che suscita” (25). Quali sono dunque questi valori, gli atteggiamenti e i propositi?   L’Eucaristia è prima di tutto sacrificio. È il sacrificio della croce che si rinnova sacramentalmente sull’altare, ma che chiede di rinnovarsi pure nella nostra vita di cristiani. Non sarebbe pienamente realizzata la comunione che facciamo, partecipando alla Messa, se il sacrificio di Gesù non diventasse il nostro sacrificio. “Vi esorto, fratelli, scriveva l’apostolo Paolo ai Romani, per la misericordia di Dio ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (12,1). Un sacrificio che ci chiede non solo di far dono delle nostre cose, ma di noi stessi; cioè di “farci dono”.  E sarà questa nostra generosa disponibilità alla gratuità un segno non trascurabile nel nostro contesto di vita dove nulla è dono, ma tutto chiede un corrispettivo e dove l’egoismo individualista è diventato legge comune. L’Eucaristia, come dice il nome stesso, è poi ringraziamento, rendimento di grazie. Gesù, nell’Eucaristia dice il suo “grazie al Padre”, il suo Amen, il suo sì d’amore alla volontà del Padre. Un Amen che viene pronunciato nel momento stesso in cui dona la sua vita, riconoscendo così che nulla ha senso se staccato dalla volontà di Dio.  Partecipare alla Messa senza dire grazie è dunque qualcosa di contraddittorio. Un grazie da pronunciare non solo quando tutto si svolge secondo le nostre attese, ma anche e soprattutto quando dire grazie significa fidarci di una paternità, quella di Dio, che a volte, come nei giorni che stiamo vivendo, sembra oscurarsi per i problemi e le difficoltà che dobbiamo affrontare. E da Dio, questo grazie si allarga ad abbracciare ogni fratello, ogni creatura. Quanto bisogno di gratitudine portiamo tutti nel profondo del cuore!  Un grazie che siamo chiamati a dire non tanto con le parole, ma con la vita che sa rivelare gratitudine a tutti e per tutto ciò che ci è stato dato. L’Eucaristia è ancora “presenza”. Presenza divina affidata alla povertà di un pezzo di pane e di un poco di vino. Presenza velata dalla semplicità di cose normali, della vita di tutti i giorni. Ciò ci rivela meravigliosamente quello che è lo stile di Dio e quale deve essere il nostro stile di presenza accanto ai fratelli. Dio non si impone a nessuno; piuttosto si propone con tutta la sua potenza nella essenzialità del pane e del vino, chiedendo all’uomo di avere quel necessario “discernimento” per riconoscere nel pane e nel vino consacrati il suo corpo e il suo sangue. Chiede cioè un atto di libertà e di grande responsabilità personale. 

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 La presenza eucaristica ci interpella sul nostro stile di presenza accanto ai nostri fratelli, nella Chiesa e nella società. Qualche volta abbiamo paura di non essere sufficientemente considerati; temiamo di essere messi da parte rispetto ad altri, ed allora ci tiriamo indietro da noi stessi. Gesù nell’Eucaristia è presente sempre e la sua presenza rimane finché rimangono inalterate le specie eucaristiche: un segno anche per noi ad essere sempre presenti, là dove il Signore ci ha posti e dove ci chiede di realizzare la missione che ci ha affidato, senza tirarci indietro, sicuri che come il seme che viene deposto nella terra, a suo tempo ci sarà anche l’abbondanza della fruttificazione e la gioia della mietitura. Da queste semplici considerazioni deve nascere qualche proposito. Non dobbiamo aver paura del sacrificio. Anzi dobbiamo proporci di fare nostra, di nuovo, la categoria del “sacrificio” come riferimento essenziale per la nostra crescita personale e come elemento con il quale coniugare il nostro impegno educativo in famiglia e nella comunità a cui apparteniamo. Per poter fare questo sarà necessario andare contro corrente e forse incappare in qualche incomprensione. Ricordiamoci allora del sacrificio di Gesù e della sua croce. Egli ce la presenta costantemente ricordandoci che chi non prende la sua croce ogni giorno e lo segue non è degno di lui. Un altro proposito deve essere quello di crescere nell’atteggiamento della gratitudine, sapendo dire grazie sempre e comunque. Grazie per la vita; grazie per la fede; grazie per il dono grande che ci è stato dato di poter appartenere alla Chiesa, a questa nostra Chiesa e alle nostre singole comunità parrocchiali. Sappiamo dire grazie al Signore per i nostri sacerdoti? Per i catechisti? Per i fratelli e le sorelle che il Signore ci ha posto accanto? Se in noi cresce lo spirito della gratitudine saremo allora anche più capaci di cogliere tutto il bene che c’è intorno a noi; ci accorgeremo che non solo non possiamo fare a meno degli altri quando ci “servono”, ma che “gli altri”, in realtà sono essi stessi un dono che Dio ci ha fatto mettendoli accanto a noi. Un dono da accogliere, da apprezzare, e per il quale ringraziare di cuore. E un altro proposito riguarda più da vicino il mistero stesso dell’Eucaristia e della presenza di Gesù in essa. È una presenza che chiede la nostra presenza adorante. Quanto tempo dedichiamo alla adorazione eucaristica personale? Si potrebbe dedicare un po’ più di tempo alla adorazione dell’Eucaristia solo se quando andiamo alla Messa, ci recassimo in Chiesa in anticipo per metterci un po’ di tempo in silenzio adorante davanti al tabernacolo. E ancora, siamo attenti a rivolgere all’Eucaristia i segni del nostro rispetto inginocchiandoci davanti ad essa e adorandola, quando le passiamo davanti? Quanto tempo dedichiamo settimanalmente all’adorazione comunitaria nelle nostre comunità parrocchiali?  È praticata nelle nostre parrocchie la solenne adorazione eucaristica annuale che un tempo si chiamava delle “Quaranta Ore”, o comunque un tempo prolungato come quello delle “24 Ore per il Signore”? Un modo anch’esso per accogliere la presenza d’amore di Gesù e farla diventare, nella nostra vita personale e in quella delle nostre comunità, presenza d’amore per ogni fratello nella Chiesa e nel mondo. 


IV Catechesi Quaresimale 2020  “La domenica: giorno della carità che si esprime nel servizio ai fratelli”

Fa sempre profonda impressione rileggere la testimonianza degli Atti degli Apostoli a proposito della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme, quando descrivendola l’evangelista Luca racconta: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. (…) Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo” (2,42-47). Ed ancora al quarto capitolo degli Atti: “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo ed un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno” (4,32-35). Si tratta di due testi assai noti che non mancano di crearci qualche difficoltà, non tanto circa la loro interpretazione, ma per la loro esemplarità per la vita della Chiesa di oggi. Infatti, quanto raccontano gli Atti degli Apostoli appartiene soltanto alla stagione delle origini del cristianesimo, o è qualcosa che deve valere in ogni tempo? Si tratta di modalità di vita che valgono solo per qualcuno o atteggiamenti che dovrebbero essere impegno comune per ogni cristiano? Si tratta di qualcosa di realmente possibile o solo di un ideale ormai lontano dal nostro modo di vivere?  

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Quanto gli Atti ci raccontano fu sicuramente espressione del fervore della comunità di Gerusalemme in un momento unico e irrepetibile: una piccola comunità, piena di entusiasmo che nella sua adesione di fede alla persona di Gesù si contraddistingueva di fronte ai tanti fratelli di fede ebraica che la guardavano con attenzione e meraviglia e che certamente cercavano conferme concrete nella vita dei seguaci di Gesù rispetto a ciò che questi andavano proclamando nella loro nuova e particolare professione di fede. Il legame molto forte all’interno della nuova comunità, la singolarità della loro fede, l’entusiasmo inedito che li animava, non poteva non provocare un forte senso della propria nuova identità, testimoniata appunto da questo spirito di comunione che si traduceva anche nella condivisione dei beni materiali. Il Nuovo Testamento ci presenta questa esperienza come propria della comunità di Gerusalemme, ma essa è stata anche di esempio per tutte le altre comunità; cosa testimoniata ad esempio dall’apostolo Paolo, il quale raccontando il proprio incontro con gli apostoli Giacomo, Pietro e Giovanni a Gerusalemme afferma che “essi ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri, ed è quello che mi sono preoccupato di fare” (Gal 2,10). Soprattutto, è interessante notare, sempre nella testimonianza di San Paolo, che il tema della condivisione dei beni, come nella pagina degli Atti, è legato in maniera strettissima con l’esperienza della “frazione del pane” detta anche “cena del Signore” e cioè con l’Eucaristia. Infatti, nella prima lettera ai Corinzi leggiamo un fortissimo rimprovero proprio a proposito del modo in cui si svolgevano certe assemblee liturgiche: “Non posso lodarvi perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio. Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. (…) Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando siete a tavola comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!” (11,17-22). “Frazione del Pane”, “Cena del Signore” e condivisione dei beni nella carità non sono realtà separate tra loro, bensì aspetti di un unico mistero; segni di un unico amore che nell’Eucaristia ha la sua manifestazione più alta e nell’esercizio della carità ha la concretizzazione più evidente. E l’unico amore è l’amore del Cristo Gesù che nell’Eucaristia continua ad offrire se stesso come “vittima di espiazione per i nostri peccati”. Vittima d’amore, perché il suo darsi per noi vuol significare che “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. E, subito dopo, Gesù aggiunge: “voi siete miei amici” (Gv 15,13). Il darsi di Gesù sulla croce è atto d’amore al Padre per noi che siamo i suoi amici; un atto d’amore che si perpetua sacramentalmente nell’Eucaristia che è quindi, per eccellenza, il sacramento dell’amore del Signore per noi. Se infatti l’Eucaristia è sacrificio, offerta e oblazione, è dunque segno che indica, contiene e trasmette la pienezza d’amore di Cristo e diventa, per questo, sorgente inesauribile di carità e cioè di unione fraterna, di condivisione e di vera accoglienza reciproca. La stessa forma celebrativa della Messa ci richiama più volte a questa pienezza d’amore che è l’Eucaristia. Non può esserci amore vero quando siamo schiavi del peccato, perché il peccato è affermazione di egoismo, di amore di sé fino al disprezzo di Dio e del prossimo. Per questo all’inizio della celebrazione, con l’atto penitenziale chiediamo perdono a Dio e ai fratelli, confessando di aver peccato in pensieri, parole, opere ed omissioni. E insieme supplichiamo la misericordia di Dio e il perdono reciproco. 

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Una richiesta di perdono che si rinnova poi, da parte del sacerdote, con la lavanda delle mani a cui si accompagna l’invocazione: “Lavami Signore da ogni colpa; purificami da ogni peccato”; così come da parte di tutti, gli uni nei confronti degli altri, quando ci si scambia “il segno di pace”, preludio ad una ulteriore richiesta di misericordia e di perdono nella triplice invocazione all’Agnello di Dio e nella dichiarazione della nostra indegnità ad accedere alla mensa del Signore: “O Signore, non sono degno che tu entri nella mia casa, ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato”. Questa ripetuta richiesta di perdono e di misericordia è richiamo concreto a riconoscere i limiti del nostro amore; la precarietà dei nostri sentimenti di bene; la necessità che ci sia chi ci salva, proprio perché nessuno può autosalvarsi; il bisogno di un “bagno” continuo di grazia per poter essere degni della grandezza dell’amore di Gesù che ci viene incontro.  È per questo che per accedere all’Eucaristia è necessario essere in “grazia di Dio”, cioè in piena comunione con Dio e con il nostro prossimo. Non si può essere riempiti dall’amore, quando il nostro cuore sia chiuso nell’egoismo. Non si può accogliere il dono della misericordia divina quando siamo chiusi alla misericordia nei confronti del prossimo. Non solo, ma il Vangelo dice ancora di più: “Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23).  Legata all’Eucaristia c’è dunque una esigenza insopprimibile di vera comunione con tutti, con Dio e con gli uomini, perché l’amore non può essere contrabbandato; l’amore deve essere amato e per amare l’amore bisogna essere in condizione di poter amare. E per poter amare davvero occorre essere liberi da ogni colpa e purificati da ogni peccato. Oggi questa consapevolezza rischia di affievolirsi fino quasi a perdersi. Notiamo infatti una notevole crescita del numero delle persone che fanno la comunione, ma non sembra in crescita la cura seria e continuata della propria coscienza anche attraverso il sacramento della confessione o penitenza. Anche ad un osservatore distratto balza subito evidente il fatto che in moltissime celebrazioni in cui affluisce tutta una serie di persone che non frequentano mai o quasi mai la Messa domenicale, queste però accedono, spesso in massa, alla comunione. O non si sa che cosa sia l’Eucaristia, o non si sa quali sono le condizioni che ci vengono chieste per accedervi degnamente. Già l’apostolo Paolo richiamava i cristiani di Corinto alla necessità di saper “discernere” il Corpo e il Sangue del Signore: “Chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1Cor 11,27-29).  “Riconoscere” non significa soltanto sapere di che cosa si tratta, ma soprattutto realizzare quello spazio interiore che permette al Signore di “rimanere” in noi e a noi di “rimanere in lui” in una vera inabitazione reciproca tanto da essere l’uno parte dell’altro; noi parte del Cristo come tralci rispetto alla vite e Lui nostra linfa, diventando così capaci di portare frutto, perché senza di lui non possiamo far nulla. Credo che tutti ricordiamo le regole che la Chiesa ci presenta per far bene la comunione: essere in grazia di Dio, cioè senza peccati gravi sull’anima; sapere e pensare a chi si va a ricevere e aver osservato il digiuno eucaristico come segno di rispetto verso questo grande sacramento. Regole che valgono tutt’ora e che nessuno ha abolito. 

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Solo a queste condizioni l’Eucaristia si manifesta in tutta la sua pienezza come il Sacramento dell’amore e della condivisione fraterna. Scriveva sempre l’apostolo Paolo ai Corinzi: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,16-17). In Cristo le diversità si compongono in unità; le differenze diventano ricchezza; le estraneità scompaiono; le molteplicità diventano sfaccettature di un’unica realtà che ha appunto il suo centro di gravitazione nel Cristo Gesù.  Scriveva San Cipriano a Magno: “Il sacrificio del Signore mette in luce l’unanimità dei cristiani cementata con solida e indivisibile carità. Giacché quando il Signore chiama suo corpo il pane composto dall’unione di molti granelli, indica il nostro popolo adunato, che Egli sostenta; e quando chiama suo sangue il vino spremuto dai molti grappoli e acini e fuso insieme, indica similmente il nostro gregge composto da una moltitudine unita insieme”.  Pane e vino eucaristici, secondo questo Padre della Chiesa sono dunque il segno del popolo di Dio, che non è un gregge di pecore sparse e senza pastore, ma un cuore solo ed un’anima sola, in cui non può più esistere il mio e il tuo come espressione di individualismo e di possesso egoistico; ma dove tutto è chiamato a diventare condivisione d’amore verso tutti. Una condivisione che per essere tale non ha bisogno di arrivare addirittura alla vendita di tutto per dare tutto a tutti come avveniva nella comunità di Gerusalemme. Ciò avviene anche oggi nella vita religiosa, come segno che richiama tutti i cristiani al necessario distacco dai beni; infatti nella vita religiosa, con il voto di povertà, ci si impegna a mettere tutto in comune così che non esiste più  ciò che è mio e ciò che è tuo, ma solo ciò che è di tutti e a servizio di tutti e prima di tutto a servizio di chi non ha nulla e di chi si trova nel bisogno, a significare che non sono le cose a fare la felicità delle persone e a realizzarle compiutamente, ma è l’amore che dall’uno circola nell’altro e che tutti stringe in unità. La condivisione a cui siamo chiamati dall’Eucaristia può realizzarsi per noi in maniera molto semplice e in forme accessibili a tutti e perciò da non trascurare. Condividiamo prima di tutto, partecipando con assiduità, tutti insieme, alla Messa domenicale nelle nostre parrocchie. La comunità che si riunisce la domenica non può essere un insieme di estranei quasi che le persone fossero lì per caso.  Perché ci sia vero incontro tra le persone dobbiamo sentire la nostra partecipazione alla Messa festiva non come una specie di utenza indispensabile, ma come il modo di esprimere la nostra appartenenza ad una comunità di fratelli, dove ci si conosce, ci si aspetta reciprocamente, ci si cerca gli uni gli altri e dove il posto vuoto che lascia qualcuno interpella gli altri a farsi carico di quell’uno che è assente. Spesso questo non accade. Anzi, qualche volta può anche succedere che l’assenza di qualcuno venga sentita come libertà maggiore per gli altri. In altre parole, dobbiamo prima di tutto condividere la gioia di essere tutti parte di una stessa umanità e di una stessa famiglia di credenti che non sarà mai completa finché mancherà qualcuno e che perché sia completa esige sempre l’impegno fattivo di tutti. Condividiamo poi grazie allo stile delle nostre celebrazioni. Qualche volta certe nostre celebrazioni non riescono affatto ad esprimere la gioia dell’essere insieme; la fretta, l’improvvisazione, l’anonimato, a volte una vera e propria sciatteria, danno il senso dello squallore più che della gioia dell’incontro dei fratelli con il Padre di tutti e dei fratelli tra di loro.  E quando c’è attenzione nel preparare le nostre celebrazioni è assai più facile far convergere in esse la nostra 

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vita di tutti i giorni, così come è più facile portare nella vita quotidiana il grande tesoro che in esse ci è donato. Vita di tutti i giorni e vita liturgica, infatti, debbono essere le due facce di una stessa medaglia che è poi la nostra vita in Cristo. Attraverso questa osmosi tra vita quotidiana e vita liturgica ci si accorge che non soltanto diventa indispensabile condividere il Pane della Vita, ma diventa pure necessario farci carico della fame materiale di tanti nostri fratelli e condividere perciò anche i bisogni e le necessità di chi ci sta accanto. Nessuno da solo può risolvere i terribili problemi che gravano sul mondo e sull’umanità, ma ciascuno può mettere a disposizione di tutti il poco che ha e il poco che è, ricordando ciò che avvenne nella moltiplicazione dei pani e cioè che Gesù, pur facendo il miracolo per sfamare le folle, lo volle fare servendosi di quei cinque pani e di quei due pesci di cui erano in possesso i discepoli. Non potrà che crescere l’attenzione ai bisogni dei poveri e comunque a ciò che avviene nel mondo e a cui anche noi siamo chiamati a dare la nostra risposta, sapendo che nelle mani del Signore anche le nostre briciole, per la sua potenza, diventano ricchezza per tutti. Nella liturgia della Cena del Signore, il Giovedì santo, dopo che è stato rinnovato il gesto della Lavanda dei piedi, in fedeltà al “mandato” dato da Gesù ai suoi apostoli: “Vi ho dato un esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi!” (Gv 13,15), mentre si portano all’altare il pane e il vino e le offerte della carità quaresimale, la liturgia ci invita a cantare l’antico inno “Ubi Charitas et amor”; un canto che racchiude in sé quanto abbiamo cercato di meditare in questa quarta catechesi quaresimale sul grande mistero dell’Eucaristia. “Ci ha riuniti tutti insieme Cristo amore. Godiamo esultanti nel Signore! Temiamo ed amiamo il Dio vivente e amiamoci tra noi con cuore sincero. Noi formiamo qui riuniti un solo corpo: evitiamo di dividerci tra noi. Via le lotte maligne, via le liti! E regni in mezzo a noi Cristo Dio. Chi non ama resta sempre nella notte e dall’ombra della morte non risorge; ma se noi camminiamo nell’amore, noi saremo veri figli della luce. Nell’amore di colui che ci ha salvato, rinnovati dallo Spirito del Padre, tutti uniti sentiamoci fratelli, e la gioia diffondiamo sulla terra”. La celebrazione eucaristica domenicale non può dunque esaurirsi dentro le nostre chiese, ma esige di trasformarsi in servizio di carità. È la preghiera che la liturgia pone sulle nostre labbra, perché diventi impegno di vita: “O Padre, che nella Pasqua domenicale ci chiami a condividere il pane vivo disceso dal cielo, aiutaci a spezzare nella carità di Cristo anche il pane terreno”. Un “pane” che potrà essere un sorriso, una stretta di mano, una parola di incoraggiamento, una visita a chi soffre, un impegno di presenza e di solidarietà accanto a chi è solo: sempre e comunque un raggio d’amore che partendo dallo splendore d’amore del Cristo si rifletterà sul nostro volto e sulla nostra vita, come luce di salvezza per ogni fratello.   

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V Catechesi Quaresimale 2020 Dalla celebrazione eucaristica alla testimonianza  della vita a servizio della missione della Chiesa 

Al termine delle nostre celebrazioni eucaristiche risuona sempre un invito che spesso viene percepito come una specie di “rompete le righe” perché tutto è finito e ognuno può andarsene per la sua strada. In realtà il congedo liturgico è l’espressione di un vero e proprio “mandato”; l’affidamento di un compito che non finisce mai e che solo per la forza del sacramento celebrato è possibile realizzare con piena efficacia: “Nel nome del Signore, andate in pace. Annunciate a tutti la gioia del Signore Risorto”, come ci verrà detto alla fine della Messa nel giorno di Pasqua. È proprio sul senso di questo compito che ci viene affidato al termine di ogni celebrazione eucaristica che vogliamo riflettere in questa quinta catechesi quaresimale che viene a chiudere il nostro cammino per giungere alla Pasqua con una più profonda comprensione del mistero dell’Eucaristia e del nostro celebrare insieme, soprattutto la domenica, nelle nostre comunità parrocchiali. L’evangelista Luca al termine del racconto dell’incontro fra Gesù e i due discepoli di Emmaus narra che essi “partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone! Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come lo avevano riconosciuto nello spezzare il pane” (24,33-35). Anche i due di Emmaus, come sembra di capire dal racconto evangelico, avevano fatto la stessa esperienza che ciascuno di noi è chiamato a fare partecipando alla Messa: avevano ascoltato la parola della Scrittura spiegata dal Signore; avevano condiviso la gioia della forza rinnovatrice di questa stessa parola mentre ardeva a loro il cuore nel petto, ascoltando le spiegazioni del misterioso pellegrino; avevano colto la luce rivelatrice dell’identità di Gesù nel gesto dello “spezzare del pane”.  Potremmo dire che lungo la strada avevano vissuto, in maniera itinerante, ciò che noi viviamo nelle nostre chiese ogni domenica e ogni volta che partecipiamo alla Messa. Questa esperienza era stata talmente forte che in quella sera di Pasqua non si trattennero oltre nella locanda di Emmaus e tornarono senza indugio a Gerusalemme perché non potevano tenere per sé la grandezza del dono ricevuto; raccontarono il meraviglioso incontro che avevano fatto, ricevendo a loro volta la testimonianza degli Undici apostoli in una condivisione gioiosa, quasi anticipo di quanto avrebbero iniziato a fare forti della potenza dello Spirito nel giorno di Pentecoste: annunciare a tutti e a tutto il mondo il lieto messaggio della salvezza. “Quando si è fatta vera esperienza del Risorto, nutrendosi (della sua parola e) del suo corpo e del suo sangue, non si può tenere solo per sé la gioia provata. L’incontro con Cristo, continuamente approfondito nell’intimità eucaristica, suscita nella Chiesa e in ciascun cristiano l’urgenza di testimoniare e di evangelizzare” (Giovanni Paolo II MND 24). Una urgenza che oggi è quanto mai pressante nel nostro contesto di vita sempre più secolarizzato e scristianizzato. Fa sempre grande impressione, rileggendo il libro degli Atti degli Apostoli, soffermarci sulla testimonianza offerta dagli apostoli a partire dalla Pentecoste. Pietro e gli altri non fanno altro che annunciare e ripetere a tutti quella che è stata la loro esperienza a proposito di Gesù crocifisso e 

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risorto: “Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso! (…) Questo Gesù è la pietra che è stata scartata da voi costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati!” (2,36. 4,11-12). Gesù non è una idea; non è un mito; non è neppure una tradizione sia pur bella e veneranda; Gesù è il Risorto da morte; è il Salvatore; è Colui che adempie tutte le promesse fatte da Dio agli uomini, offrendo a ciascuno la possibilità di essere salvato.  E questo è possibile proprio perché Gesù è il vivente che era, che è e che viene; il Dio con noi. Si tratta dell’annuncio di sempre; cioè dell’annuncio che la Chiesa non ha mai cessato di rivolgere al mondo lungo tutto il suo cammino attraverso le generazioni e le civiltà più diverse; un annuncio che come al tempo degli apostoli non ha mai cessato di provocare risposte di fede come leggiamo negli Atti: “All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: Che cosa dobbiamo fare, fratelli?. E Pietro disse loro: Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro” (2,37-39). Viene perciò spontaneo domandarci: oggi stiamo rivolgendo con forza questo stesso annuncio al mondo che ci circonda o viviamo nella illusione che l’annuncio di Gesù è già stato fatto e che tutto sommato basta conservare quello che c’è? E se ci impegniamo in questo annuncio, perché a volte sembra che non otteniamo quella risposta che ci attenderemmo? È ovvio che non dobbiamo mai semplificare troppo le cose; ma se è vero, come è vero, che la potenza dell’Eucaristia che celebriamo è infinita e che essa costituisce il tesoro insuperabile della vita e dell’azione ecclesiale e che essa ha una efficacia salvifica straordinaria, perché le nostre celebrazioni stanno assottigliandosi nel numero di fedeli che vi partecipano regolarmente? Perché in molti luoghi soprattutto i giovani le disertano? Perché le domeniche ordinarie “piangono miseria” di fronte alle grandi feste dell’anno liturgico? Che cosa c’è che non funziona o non funziona più? Non pretendo certamente di dare risposte esaustive nel poco tempo che ci è dato; ma credo che sia importante provare a riflettere soprattutto noi che viviamo con assiduità e impegno il nostro incontro domenicale col Signore nell’Eucaristia. Già San Giovanni Paolo II in una sua omelia del 2004 fece una osservazione che mi sembra decisiva:  riferendosi alle parole dell’Apostolo Paolo nella prima lettera ai Corinzi (11,26) “ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore finché egli venga”, affermava: “L’apostolo pone in stretta relazione tra loro il convito e l’annuncio: entrare in comunione con Cristo nel memoriale della Pasqua significa, nello stesso tempo, sperimentare il dovere di farsi missionari dell’evento che quel rito attualizza”.  Diventare missionari dell’evento che si celebra nella Messa, significa annunciare quello che è il contenuto stesso dell’Eucaristia; un contenuto, cioè un modo di essere, un “progetto”, diceva ancora San Giovanni Paolo II, che dall’Eucaristia passa nella vita stessa del discepolo di Gesù. “L’Eucaristia infatti è un modo di essere, che da Gesù passa nel cristiano e, attraverso la sua testimonianza, mira ad irradiarsi nella società e nella cultura. Perché ciò avvenga, è necessario che ogni fedele assimili, nella meditazione personale e comunitaria, i valori che l’Eucaristia esprime, gli atteggiamenti che essa ispira, i propositi di vita che suscita” (MND25). Valori, atteggiamenti e propositi, sono dunque le vie attraverso le quali possiamo diventare autentici 

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annunciatori e testimoni di Gesù nel mondo proprio grazie all’Eucaristia che celebriamo e di cui ci nutriamo. Se l’Eucaristia è il “progetto” per la missione che ci è affidata, quali sono i suoi elementi fondamentali?  Un primo elemento, indicatoci dal nome stesso “Eucaristia” è il ringraziamento, il rendimento di grazie. In Gesù, il rendimento di grazie al Padre è il sì incondizionato alla Sua volontà: “Ecco io vengo o Padre per fare la tua volontà”, dice il Cristo entrando nel mondo. Ed è per questa volontà che noi siamo stati salvati (cfr. Eb 10). Un sì che Gesù rinnovò ogni giorno nella sua vita terrena e che si consumò sulla croce dove si abbandonò totalmente alla volontà salvifica del Padre. Un Sì, un Amen, che non cessa di elevarsi al Padre ogni volta che celebriamo l’Eucaristia e che porta in sé il sì e l’Amen dell’intera umanità. Un sì e un Amen che deve poter diventare sempre di più il nostro personale consenso di fede alla volontà di Dio.  E tutto ciò non in astratto, ma nella concretezza della vita di ogni giorno: in famiglia, a scuola, nei posti di lavoro, nelle più diverse condizioni di vita, in cui Dio rischia di apparire sempre più un estraneo da relegarsi nel privato della coscienza o nell’ambito del culto. Affermare il nostro Sì grato e riconoscente al Signore significa pure manifestare con forza rinnovata che non è possibile la crescita e la maturazione autentica della persona umana e della società civile stessa se non in relazione a Dio e al suo progetto d’amore. Senza riferimento a Dio anche l’uomo si perde; smarrisce se stesso e il senso del suo esistere. Non è facile e lo diventa sempre meno, affermare il riferimento a Dio come indispensabile per la sussistenza degli stessi valori umani: a volte notiamo, anche da parte di persone che pur si dicono credenti in Cristo, quasi la paura ad affermare e a testimoniare la presenza di Dio nel mondo, come se riferirsi a Dio e al suo disegno di amore e di salvezza per l’umanità potesse in qualche modo intaccare la giusta autonomia delle istituzioni civili o dello Stato. Diceva ancora San Giovanni Paolo II: “Chi impara a dire grazie alla maniera di Cristo crocifisso, potrà essere un martire, ma non sarà mai un aguzzino” (MND26). Dio non toglie niente a nessuno, ma semmai arricchisce sempre in libertà, in verità, in vita e in pace. Un altro elemento del mistero eucaristico che dobbiamo sempre più assimilare per la crescita della nostra testimonianza e l’esercizio della nostra missione nel mondo è la comunione che essa fonda, alimenta ed esprime. Comunione e comunanza di vita con Dio stesso in Cristo Gesù per la forza dello Spirito e che diventa necessariamente comunione di vita tra fratelli, impegno di servizio, disponibilità al dono di sé. Nella preghiera eucaristica terza, dopo la consacrazione, il sacerdote dice: “Guarda con amore (o Padre) e riconosci nell’offerta della tua Chiesa, la vittima immolata per la nostra redenzione; e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”. Il “segno della pace” che ci scambiamo nella liturgia non è che una ulteriore esplicitazione di questa comunione che ci offre il sacramento e che deve trovare attuazione nella vita quotidiana del cristiano per estendersi alla vita di ogni uomo, attraverso la disponibilità al servizio. Infatti non dobbiamo mai dimenticare che proprio nella sera dell’Ultima Cena, “Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò fino alla fine. (…) si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli (…) Quando ebbe lavato loro i piedi (..) disse loro: Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il 

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Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi” (Gv 13,1-15). Per essere primi, occorre metterci all’ultimo posto, dice Gesù. Per poter essere credibili come annunciatori del vangelo dell’amore, bisogna viverlo concretamente questo amore. Perché tante barriere che separano gli uomini dal contatto con Gesù e dal suo vangelo si infrangano e vengano abbattute, occorre avvicinarci a questi nostri fratelli con il catino in mano e non solo per fare il gesto di lavar loro i piedi, ma impegnandoci realmente nel servizio, umile, disinteressato, gratuito, continuato, con nessun altro intento se non quello di manifestare in noi l’amore stesso di Dio. In fondo si tratta della logica evangelica del chicco di grano che se non cade nella terra e non muore dentro il solco aperto, non sboccia neppure in quella nuova vita che dà prima lo stelo verde, poi la spiga di grano e poi l’abbondanza di chicchi maturi per la mietitura. È sempre e soltanto dall’amore vicendevole, e in particolare, dalla sollecitudine per chi è nel bisogno che saremo riconosciuti come veri discepoli di Cristo. Tutto questo deve essere annunciato al mondo attraverso la nostra vita che potrà e dovrà diventare vera vita eucaristica sia individualmente che comunitariamente. Se infatti, il rendimento di grazie e la comunione nel servizio fraterno traspariranno dalla nostra vita personale e dallo stile di vita delle nostre parrocchie, questa sarà la prova più convincente della presenza del Signore in mezzo a noi. Ricordiamo la domanda che gli ebrei si posero nel deserto di Meriba quando mancava l’acqua e il popolo soffriva la sete: “Ma Dio è in mezzo a noi si o no?”. Oggi il deserto è davvero il mondo in cui viviamo e in cui molti si pongono e ci pongono la domanda: “Ma Dio è in mezzo a voi si o no?”  Noi sappiamo che l’Eucaristia è il Dio con noi, ma un Dio silenzioso, nascosto nella fragilità e nella povertà dei segni del pane e del vino. Nascondimento e silenzio che dobbiamo fare nostri. Quanto più ci conformiamo al silenzio e al nascondimento dell’Eucaristia, paradossalmente, tanto più la nostra vita personale e comunitaria diventerà capace di gridare fin sopra ai tetti il messaggio stupendo della presenza del Signore. La nostra vita, il nostro stile personale e comunitario sarà il segno che potrà dire a tutti: sì il Signore è in mezzo a noi; egli è con noi e non ci abbandona. Ci chiede soltanto di fargli spazio perché egli possa rimanere in noi e noi possiamo rimanere in lui. E più che le parole, parlerà, meglio ancora, griderà la nostra vita, annunciando a tutti l’amore immenso del Signore per ogni creatura. 

MOMENTO STRAORDINARIO DI PREGHIERA IN TEMPO DI EPIDEMIA

PRESIEDUTO DAL SANTO PADRE

Venerdì, 27 marzo 2020

MEDITAZIONE DEL SANTO PADRE

«Venuta la sera» (Mc 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme.

È facile ritrovarci in questo racconto. Quello che risulta difficile è capire l’atteggiamento di Gesù. Mentre i discepoli sono naturalmente allarmati e disperati, Egli sta a poppa, proprio nella parte della barca che per prima va a fondo. E che cosa fa? Nonostante il trambusto, dorme sereno, fiducioso nel Padre – è l’unica volta in cui nel Vangelo vediamo Gesù che dorme –. Quando poi viene svegliato, dopo aver calmato il vento e le acque, si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40).

Cerchiamo di comprendere. In che cosa consiste la mancanza di fede dei discepoli, che si contrappone alla fiducia di Gesù? Essi non avevano smesso di credere in Lui, infatti lo invocano. Ma vediamo come lo invocano: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38). Non t’importa: pensano che Gesù si disinteressi di loro, che non si curi di loro. Tra di noi, nelle nostre famiglie, una delle cose che fa più male è quando ci sentiamo dire: “Non t’importa di me?”. È una frase che ferisce e scatena tempeste nel cuore. Avrà scosso anche Gesù. Perché a nessuno più che a Lui importa di noi. Infatti, una volta invocato, salva i suoi discepoli sfiduciati.

La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità.

Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”, «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: «che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai.

Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Il Signore si risveglia per risvegliare e ravvivare la nostra fede pasquale. Abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore. In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza.

Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà. Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire. Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Cari fratelli e sorelle, da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, stasera vorrei affidarvi tutti al Signore, per l’intercessione della Madonna, salute del suo popolo, stella del mare in tempesta. Da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio. Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: «Voi non abbiate paura» (Mt 28,5). E noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cfr 1 Pt 5,7).

Comunicato CET

9 Marzo 2020

Comunicato CET del 9 Marzo 2020

La Conferenza episcopale toscana si è riunita questa mattina all’eremo di Lecceto: tra i temi all’ordine del giorno, quello delle misure adottate dal Governo Italiano per contrastare la diffusione del “coronavirus”, e di come queste incidono sulla vita delle comunità cristiane e dei singoli fedeli.

 I Vescovi toscani hanno manifestato la loro piena sintonia con la posizione espressa dalla Cei, condividendo con tutti i vescovi italiani “la comune preoccupazione di fronte all’emergenza sanitaria che sta interessando il Paese”. Sempre in sintonia con la Cei, esprimono anche il loro disagio di fronte alla prescrizione, fortemente restrittiva, di sospendere la celebrazione pubblica delle Sante Messe, che viene comunque accolta nell’ottica della reciproca collaborazione per il bene del Paese, in vista della tutela della salute pubblica. I Vescovi fanno richiamo, da questo punto di vista, al senso di responsabilità che in questi giorni si attende che venga praticata da tutti e in modo particolare da un soggetto pubblico come la Chiesa.

Evitare tutto ciò che può favorire gli assembramenti di persone, sottolineano i Vescovi, limita molto la dimensione comunitaria della vita cristiana, ma è un limite che va accettato per evitare il diffondersi del contagio. Questa misura implica la sospensione della Messa con il popolo e di ogni altra funzione liturgica pubblica, sia in luoghi chiusi che aperti. Per quanto riguarda le esequie, la cui sospensione è esplicitamente richiesta dal Decreto governativo, i Vescovi esortano a sostenere i familiari nel loro dolore con la benedizione del feretro che, non potendo essere fatta in chiesa, può comunque svolgersi in forma privata, come previsto dai libri liturgici, assicurando anche i fedeli che si potrà celebrare la Santa Messa in suffragio del defunto una volta superata questa emergenza.

I Vescovi invitano anche sacerdoti, catechisti e quanti hanno compiti pastorali ad aiutare i fedeli a interpretare nel modo corretto queste limitazioni. Ci viene chiesto un grande sacrificio, quello di rinunciare alla celebrazione dell’Eucaristia con il popolo: vogliamo vivere questo “digiuno eucaristico”, affermano i Vescovi toscani, come stimolo a pensare ancora di più all’Eucaristia come «fonte e culmine di tutta la vita cristiana». Il fatto che in questo momento non possiamo celebrare pubblicamente la Messa, non deve farci dimenticare la centralità della celebrazione eucaristica, e non ci impedisce di viverne i frutti, in particolare la carità e la comunione. La stessa privazione della celebrazione comunitaria può essere vissuta come gesto di carità verso la comunità civile e come segno di comunione nella Chiesa e con il popolo. Questa privazione può essere inserita tra le penitenze quaresimali, ricordando che anche il Venerdì santo è un giorno senza celebrazione eucaristica.

I Vescovi ricordano che i sacerdoti sono invitati a continuare la celebrazione dell’Eucaristia, anche senza la partecipazione fisica del popolo, e che tutti i fedeli in questa situazione di emergenza si possono unire a questa celebrazione spiritualmente. Per questo, i Vescovi invitano a mantenere nelle parrocchie il suono delle campane, per

ricordare che l’Eucaristia non viene meno, anche in questo periodo in cui ne è sospesa la celebrazione pubblica. La nostalgia della Messa può divenire occasione di conversione e tappa del cammino che ci conduce alla Pasqua.

Questa situazione richiede anche alle comunità cristiane il ricorso ad altre varie iniziative pastorali, anche incentivando l’uso dei nuovi mezzi di comunicazione come canali di evangelizzazione e di partecipazione alla vita secondo lo Spirito. Questi strumenti possono essere utilizzati per assistere, nella preghiera, alle celebrazioni liturgiche, ma anche per promuovere iniziative di catechesi, formazione e meditazione. La Domenica si invitano tutti i fedeli a collegarsi tramite televisione, radio o social network alle celebrazioni rese abitualmente accessibili per chi è malato o nell’impossibilità di recarsi in chiesa.

Nel guardare alla situazione dei nostri territori, i Vescovi manifestano la loro vicinanza alle persone malate e ai loro familiari, agli anziani e alle persone fragili che corrono i rischi più alti dalla diffusione del contagio, ed esprimono gratitudine verso medici, infermieri, personale sanitario, associazioni di volontariato e tutti coloro che in questi giorni, in Toscana come nel resto d’Italia, sono faticosamente impegnati a fronteggiare questa emergenza.

Questo, concludono i Vescovi, sia un tempo più intenso di preghiera e di riscoperta del grande dono della Parola di Dio, che già all’inizio di questo tempo di Quaresima ci è stato raccomandato: “Non di solo pane vive l’uomo...”. L’ascolto attento della Parola aiuterà anche a prendere coscienza che quanto sta accadendo non deve essere considerato un castigo di Dio. A Dio dobbiamo, piuttosto, fare riferimento nella preghiera, per invocarne la presenza accanto agli uomini come fonte di conforto, fiducia, speranza, fraternità. Come cristiani siamo chiamati a dare testimonianza di tutto questo, impegnandoci responsabilmente per il bene comune.

Questo sia anche un tempo di consapevolezza della nostra condizione di creature e di carità: l’emergenza che viviamo deve essere occasione per riflettere sulla precarietà e sulla fragilità della vita umana, e sul destino comune che abbraccia l’umanità. La diffusione della malattia ci dimostra che siamo interdipendenti gli uni dagli altri, e la via di uscita da questa epidemia può essere trovata solo attraverso la collaborazione e la solidarietà di tutti.

Maria, salute dei malati, sia sostegno e conforto in questo difficile frangente; il Signore, fonte di ogni bene, benedica la famiglia umana e allontani da noi ogni male.

9 Marzo 2020

Comunicato CET

5 Marzo 2020

COMUNICATO DELLA CONFERENZA EPISCOPALE TOSCANA

NUOVE DISPOSIZIONI PER LIMITARE IL CONTAGIO DEL CORONAVIRUS


I Vescovi delle Diocesi della Toscana invitano a ottemperare a quanto la Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana ha indicato in data odierna circa la vita liturgica e pastorale delle comunità, a seguito delle misure contenute nel nuovo decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri per arginare il rischio del contagio del coronavirus, le cui norme vanno accolte come contributo al bene comune e alla serena convivenza sociale.

 

Alle luce delle norme governative e delle indicazioni della CEI, mentre prendono atto della “possibilità di celebrare la Santa Messa, come di promuovere gli appuntamenti di preghiera che caratterizzano il tempo della Quaresima”, i Vescovi della Toscana – in una prospettiva prudenziale, in quanto nella regione al momento la situazione sanitaria non sembra presentare quei caratteri di gravità che si riscontrano in altri territori – dispongono, fino a quando rimarrà in vigore il decreto governativo, le seguenti specifiche misure precauzionali, che si aggiungono a quelle indicate nei giorni scorsi, che parroci, operatori pastorali e fedeli sono invitati a rispettare scrupolosamente:

Queste disposizioni si aggiungono a quelle date giorni fa ai parroci delle chiese toscane:

I Vescovi rinnovano la vicinanza a quanti, malati e persone loro prossime, soffrono a causa dell’epidemia, come pure a quanti sono impegnati a contrastarla a livello sanitario o a prendere decisioni per affrontare la situazione nella vita sociale. Smarrimento e paura non devono spingere a una sterile chiusura; questo è il tempo in cui ritrovare motivi di realismo, di fiducia e di speranza, che consentano di affrontare insieme la difficile situazione. I Vescovi rinnovano l’invito alla preghiera, per invocare dalla Misericordia divina il conforto del cuore e la liberazione dal male: «Dio onnipotente e misericordioso, guarda la nostra dolorosa condizione: conforta i tuoi figli e apri i nostri cuori alla speranza, perché sentiamo in mezzo a noi la tua presenza di Padre» (Messale Romano). 

5 marzo 2020